Don Aldo Mei

Testimoni del Risorto 30.07.2014

“In coscienza non ho commesso delitti. Solamente ho amato come mi è stato possibile”: lo scrive, la sera prima di essere giustiziato, un “pretino pallido e magro, dagli occhi profondi dietro le lenti, forse un po’ ammalato, ma ben dotato di virtù e di dottrina”. Sostanzialmente tre i capi d’accusa, emersi a suo carico nel corso di un processo-farsa, che conducono ad una sentenza già decretata ancor prima dell’arresto: 1)aver dato ospitalità ad un ragazzo ebreo per salvarlo dalla deportazione; 2) aver amministrato i sacramenti ai partigiani; 3) aver detenuto una radio con la quale essere informato dell’avanzata degli Alleati e che, al momento dell’arresto, non era già più funzionante. E se pure il terzo motivo “non è nobile come i precedenti”, per ammissione dello stesso interessato, in realtà la brutale esecuzione vuole essere un chiaro messaggio inviato all’arcivescovo e al suo clero più impegnato sul terreno dell’assistenza alla popolazione civile e che da mesi ha ormai scelto da che parte stare, rifiutando di denunziare ed anzi nascondendo nelle sue strutture (le parrocchie, le canoniche, i monasteri e i conventi) molti renitenti alla leva, uomini che vogliono evitare la deportazione al lavoro coatto, antifascisti o ex fascisti ricercati, e naturalmente ebrei. Il teatro di questa vicenda è la Lucchesia, il periodo quello dell’occupazione tedesca e tutto ruota attorno a don Aldo Mei, giovane prete nato a Ruota di Lucca il 3 marzo 1912. A soli 23 anni è consacrato sacerdote e subito viene destinato come parroco della parrocchia di Fiano, comune di Pescaglia, dove si insedia il 14 agosto 1935. Gli tocca una popolazione (poche centinaia di persone) composta per la stragrande maggioranza da poveri e una chiesa di recente costruzione, neppur ancora completata. Non sembra scoppiare di salute, ha un aspetto fragile, sembra quasi timoroso e non alza mai la voce: in realtà si rivela tutto fervore, intraprendenza e coraggio nel rivitalizzare la vita parrocchiale, dare impulso all’Azione Cattolica e organizzare l’asilo per i più piccoli. Negli anni bui della guerra, per inclinazione personale e in obbedienza alle precise indicazioni del vescovo di Lucca, si prende particolare cura di sfollati, perseguitati e poveri. È in costante collegamento con il team di sacerdoti cui il vescovo ha conferito l’incarico dell’assistenza agli ebrei, in particolare con fratel Arturo Paoli, che coglie dalle sue labbra la frase “Bisogna esser pronti a morire per i fratelli”: decisamente qualcosa in più di un pio proposito, soprattutto alla luce dei fatti. Don Aldo non si tira indietro quando bisogna salire sulle colline di Pescaglia, per portare la sua assistenza spirituale a chi sta combattendo per la liberazione di quella porzione d’Italia e, in prossimità di una base partigiana, ha fatto realizzare anche un altare, dove periodicamente si reca a celebrare. In casa sua, poi, ha accolto Adolfo Cremisi, un giovane ebreo destinato alla deportazione: pur ospitandolo con tutte le precauzioni del caso (al punto che di questa presenza neppure si accorgono gli abituali frequentatori della canonica), la sua intensa attività pastorale non sfugge ad una spia repubblichina, autrice di una “soffiata”. Il 2 agosto 1944, nel corso di un rastrellamento tedesco della zona, don Aldo viene arrestato ,insieme ad altri parrocchiani, sulla porta della chiesa, dopo la celebrazione della messa. Tradotto a Lucca e rinchiuso nell’edificio adattato a carcere, viene processato per direttissima il giorno successivo e condannato a morte. Gli negano gli ultimi sacramenti e gli impediscono di incontrare il vescovo, nel tentativo di piegare la sua resistenza e di ottenere informazioni sui movimenti dei partigiani, provando ad estorcergliele anche con insulti e percosse. Le ultime parole, che riesce a vergare sulle pagine bianche del breviario e sulla parte interna di una busta, indirizzate ai genitori e al ragazzo ebreo suo ospite, trasudano serenità e perdono: “Muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio, io che non ho voluto vivere che per l’amore! Deus Charitas est e Dio non muore. Non muore l’amore! Muoio pregando per coloro stessi che mi uccidono”. Alle 10 di sera del 4 agosto, sotto le mura di Lucca, cade crivellato dalla mitragliatrice nella fossa che gli han fatto scavare con le sue forze residue: muore pregando, con la corona del rosario in mano. Ora riposa nella sua chiesa parrocchiale, in attesa che la sua morte venga riconosciuta come martirio e si possa così procedere alla sua beatificazione.