Fra Umile da Bisignano

Testimoni del Risorto 15.03.2017

Umile di nome e di fatto. Talmente umile, che ci son voluti quasi 250 anni per chiamarlo beato e ben 365 per proclamarlo santo. Fra Umile da Bisignano, infatti, morto nel 1637, è stato beatificato nel 1881 e canonizzato solo il 19 maggio 2002, e non certo perché mancassero elementi per farlo prima! Sembra infatti che l’umiltà e la semplicità, elementi caratteristici della sua non lunga vita, abbiano finito per ritardare anche il riconoscimento ufficiale della sua santità. Nasce a Bisignano, in Calabria, nel 1582, figlio di modesti agricoltori, battezzato con il nome di Lucantonio. Un’agiografia, che certamente risente dello stile dell’epoca, si preoccupa di mettere in evidenza i doni soprannaturali che si manifestano in lui fin dai primi anni. Certo è, invece, che il bambino ha una straordinaria sensibilità, una grande generosità, una spiccata devozione e sicuramente una precoce inclinazione per la vita religiosa. Che però tarda ad attuare, e lo considererà sempre il più grosso peccato della sua vita. Il fatto è che mamma, vedova e con due figlie ancora piccole, non si rassegna a perdere l’unico sostegno economico della sua famiglia e piange così disperatamente da convincere il figlio ad aspettare. Entra nel convento dei Frati Minori a 27 anni e da quel giorno inizia a svolgere con esattezza e semplicità le mansioni tipiche dei religiosi non sacerdoti: la questua, il servizio alla mensa della comunità, la cura dell’orto. Si “permette”, quali uniche varianti rispetto ai suoi confratelli, quelle lunghe estasi, che lo portano “quasi all’altezza di un cipresso”, le rumorose e violente battaglie con il demonio che spesso lo lascia mezzo morto, le prolungate preghiere “per tutto il genere umano”, le penitenze e i digiuni. Fra Umile finisce inevitabilmente per essere guardato con sospetto dai superiori, sottoposto ad esami e processi per accertare che quanto di meraviglioso avviene attorno a lui non sia opera del demonio. I superiori lo mettono alla prova, ordinandogli le cose più assurde e difficili da fare, che Umile, con inalterata ubbidienza e infinita pazienza, puntualmente esegue, come la volta in cui lo obbligano a piantare i cavoli con le radici al sole e le foglie sottoterra e questi non solo attecchiscono, ma in poco tempo sono anche al punto giusto per essere mangiati. Tutti si possono tranquillizzare, però: vescovi, dottori e fior di teologi non possono che riconoscere, oltre alla limpidezza della fede, una scienza sovrumana che non può certo far parte del bagaglio culturale del semplice frate, che aveva perfin faticato a mandare a memoria la Regola del suo Ordine. E si devono rassegnare a registrare anche piccoli e grandi prodigi, come il pane moltiplicato sul tavolo, l’acqua marina diventata dolce e potabile, i malati risanati, le conversioni che non si contano più. E il sacco della questua vuoto, che improvvisamente si riempie di fragranti pagnotte; e la magra provvista di pane per due persone, che improvvisamente diventa sufficiente per sfamarne settanta. E poi ancora i disagi al convento, preso d’assalto da chi lo vuole vedere e si vuole raccomandare alle sue preghiere; l’invidia di qualche confratello e in particolar di quel frate che a più riprese cerca addirittura di ucciderlo. Attorno a lui, però, fiorisce anche tanta invidia e tanta gelosia; non è soltanto fra’ Domenico di Cutro a parlar male di Umile ed a mettere voci incontrollate sul suo conto, ma pure tutti quelli che sono messi in crisi dal suo stile di vita; e poi quelli che mal sopportano la popolarità di cui gode e l’affetto della gente, come pure quanti si rodono perché finanche Gregorio XV e Urbano VIII vogliono consultare quel frate illetterato, in cui però parla la sapienza di Dio. Poi arrivano le sofferenze fisiche più atroci a contrassegnare i suoi ultimi mesi; il suo corpo è come un sacco vuoto, consunto e sdrucito che sta andando a pezzi perché gli sono state richieste troppe penitenze e ha sopportato troppi digiuni, anche se Umile ha solo 55 anni. Sono mesi in cui a fatica riesce a mettere qualcosa nello stomaco, anche solo il sorso d’acqua per trangugiar le medicine; solo è capace, ancora, di dar prova di eroica accettazione della sofferenza, di pazienza, di amorevole sopportazione senza un lamento, fino al 26 novembre 1637, quando finalmente il frate Umile, deposti definitivamente il sacco della questua e la zappa del suo orticello, può contemplare il suo Dio “faccia a faccia”.