Mauro Fornasari

Testimoni del Risorto 01.11.2017

Don Mauro Fornasari è l’unico diacono della Resistenza nella Chiesa di Bologna cui è chiesto di pagare con la vita le conseguenze del clima infuocato da violenze reciproche, veti incrociati e sospetti molte volte ingiustificati, che si respira in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Nel suo caso, poi, come in altri analoghi coinvolgenti il clero, si hanno fondati motivi per ritenere che a far maturare il suo assassinio sia stato un palese odio contro la fede, per cui proprio in questi mesi si sta lavorando per scoprire nella sua morte eventuali tracce di martirio, tali da giustificare l’avvio di un eventuale processo di beatificazione. Oggi, comunque, avrebbe 95 anni, essendo nato nel 1922 in una famiglia contadina benestante e ricca di fede che considera ancora la vocazione religiosa come una benedizione di Dio e un motivo di orgoglio. Sveglio e agile, nel fisico e nella mente, suscita invidia e sana emulazione anche in compagni che poi avrebbero fatto tanta strada, come Luigi Bettazzi, futuro vescovo di Ivrea. Nel giugno 1944 viene ordinato diacono: il bombardamento del seminario di Bologna del 1943 ha fatto sfollare  tutti i seminaristi e anche Mauro ha trovato rifugio nella casa paterna, a Longara, una frazione di Calderara di Reno. L’inattesa “vacanza” gli permette, tuttavia, di continuare a studiare, coltivare le sue devozioni e, in particolare, fare pratica pastorale accanto al parroco del suo paese, rivelando la solidità e l’affidabilità della sua vocazione. A detta dei testimoni, don Mauro prima e dopo l’ordinazione diaconale sviluppa una particolare tendenza all’ascolto e all’aiuto fraterno. Tra le persone cui dedica tempo e attenzioni particolari, sicuramente i suoi coetanei, che più di lui sono chiamati a schierarsi e a scegliere “da che parte stare”, il più delle volte facendo anche la scelta rischiosa di darsi alla macchia e di combattere con i  partigiani. “Mauro non aveva passionalità politica. Aveva una chiara propensione per il sociale”, dicono adesso di lui, ricordando le sue serate passate in accese discussioni, a “leggere” le difficoltà del presente e a sognare il futuro. Forse antifascista da sempre, se ciò significa respingere il sopruso e l’usurpazione violenta, con il diaconato sviluppa anche una particolare attenzione verso il prossimo, esprimendolo, ad esempio, con il portare generi di prima necessità a chi ne ha bisogno e tra questi, naturalmente, anche ai partigiani e ai “renitenti della leva” che vivono nascosti per sottrarsi al “bando Graziani”. “Mauro difendeva chi era perseguitato e in pericolo. Non era un partigiano ma aiutava chiunque non voleva combattere con le armi. Era un non violento attivo. Non combatteva con le armi ma con la parola, con la ragione, apertamente e senza paura”, raccontano gli amici di allora. Facile, soprattutto in quel periodo, scambiarlo per un partigiano o, perlomeno, un simpatizzante; per questo pare si fosse decisa la sua soppressione appena un paio di mesi dopo il diaconato, nel settembre 1943, per vendicare l’uccisione del capitano della Guardia nazionale repubblicana e anche per dare “una lezione alla chiesa”, dato che non si va troppo per il sottile e qualsiasi tonaca nera può andar bene. Un anno dopo, a inizio ottobre 1944, un drappello di brigate nere lo preleva in casa sua con l’inganno e, sembra, su segnalazione del veterinario del paese, noto fascista, che conosce bene il diacono, avendogli mandato a ripetizione i suoi due figli. Fermatisi in aperta campagna per un guasto alla vettura, don Mauro riesce a fuggire grazie alla sua agilità, e a rientrare trafelato in casa, dove passa l’intera notte in preghiera. È consapevole che verranno ancora a cercarlo e che, nascondendosi, mette a rischio la vita dell’intera famiglia, per questo il mattino dopo, quando le brigate nere tornano nel suo cortile a suon di bestemmie, le segue spontaneamente, portando con sé solo il breviario. Lo troveranno alcune ore dopo di quello stesso giorno, 5 ottobre, sul greto del fiume: orrendamente seviziato, con la talare strappata e infangata, tumefatto in diverse parti del corpo e finito con alcuni colpi di pistola esplosi al volto da distanza ravvicinata. “Il suo offrirsi volontariamente alla morte, sia per rispondere in tal modo alla chiamata del Signore, sia per non creare possibili ritorsioni sulla famiglia”, ha scritto mons. Bettazzi, “ci dimostra come si può essere, al sommo grado, operatori di pace”.