Il Venezuela tra dolore e solidarietà

Padre Mario Bedino di Piovani, 71 anni, da 41 missionario in Venezuela, racconta come la Chiesa sta affrontando la difficile situazione del Paese latino americano

Bedino Mario, missionario in Venezuela originario di Piovani

Nei giorni scorsi è rientrato temporaneamente a Piovani, per una breve visita ai famigliari, don Mario Bedino, da 41 anni in Venezuela, Paese al centro dell’interesse e delle preoccupazioni internazionali per la situazione politica molto delicata che negli ultimi anni ha avuto conseguenze drammatiche sulla vita quotidiana della popolazione.
Padre Mario, 71 anni, è il secondo della numerosa famiglia (sette maschi e una femmina) di Flip e Maria Bedino, due belle persone che hanno lasciato un’impronta significativa nella comunità di Piovani. Pur avendo trascorso gran parte della sua vita in America latina, padre Mario parla perfettamente il piemontese.
Partito da Piovani nel 1970 per studiare teologia all’Università cattolica pontificia di Madrid, rimase in Spagna fino ai 30 anni, occupandosi dell’animazione missionaria vocazionale con l’Istituto della Consolata cui al tempo apparteneva. Fu quindi mandato in Venezuela (inizialmente a San Cristobal, città nelle Ande vicino alla Colombia, per cinque anni) , poi  a Trujillo (una regione Nord occidentale del Paese) e successivamente nella penisola della Guajira (sul mar dei Caraibi) a lavorare con gli indigeni. In seguito si trasferì a Barquisimeto (la quarta città più popolosa del Venezuela, con 1.200.000 abitanti).  Con un altro sacerdote e cinque seminaristi iniziò a operare in periferia, in una zona che, in seguito, l’istituto della Consolata decise di lasciare. Padre Mario chiese al vescovo e ottenne di essere incardinato nella diocesi, entrando quindi a far parte del clero diocesano. Passò poi alla parrocchia di San Pedro, dove rimase per otto anni, occupandosi della pastorale, insegnando nel collegio e occupandosi della direzione del Centro studi del Seminario. Ora opera in un’altra parrocchia e continua a insegnare in Seminario.

Qual è oggi la situazione in Venezuela?
La situazione è drammatica. La svalutazione è arrivata alle stelle: la gente deve sopravvivere con un salario o una pensione di circa 100.000 Bolivar al mese quando un kg di carne ne costa 20.000. Questo perché non c’è più produzione agricola e quasi tutto deve essere importato. Le espropriazioni avviate già all’epoca di Hugo Chavez e intensificate da Maduro hanno lasciato il vuoto. Questo in tutti comparti, purtroppo: in quello agricolo come in quello industriale, a partire dall’industria petrolifera, fiore all’occhiello del Venezuela: le raffinerie, funzionano sempre meno; i tecnici più preparati hanno lasciato il Paese e gli impianti risentono della mancanza di manutenzione.

Senza industria e senza agricoltura, su cosa si basa l’economia? Di cosa vive la gente?
L’economia si è fermata, le fabbriche hanno chiuso, così come le aziende agricole. Attraversando la pianura si incontrano ormai pochissime mandrie…La gente si è inventata piccoli lavoretti, per lo più commerci ambulanti: c’è chi cucina per strada, chi vende stringhe, bottoni, chi aggiusta cose… È pura economia di sussistenza, ma non può reggere.

I soldi, come diceva, non bastano per mangiare.
No, assolutamente. Si fa la fame, letteralmente. La gente rovista nelle pattumiere alla ricerca di qualcosa per sfamarsi; i furti sono all’ordine del giorno. Nei negozi non si trova più niente e quando arriva il rifornimento di una qualsiasi merce si formano code infinite. Anche per la benzina, l’unico bene disponibile a poco prezzo, si devono fare lunghe code.

La benzina c’è. Ma ci sono le automobili?
Molte sono ferme: la gente non ha i soldi per i pezzi di ricambio, neppure per il cambio d’olio. Usano l’olio finché diventa carbone: per un cambio d’olio servono tre salari…

Come reagisce la popolazione a tutto questo?
C’è grande tristezza, desolazione. Il nostro è un popolo allegro, che esprime con vivacità i sentimenti di gioia, ma questa situazione senza sbocco lo sta deprimendo. I giovani e gli adulti se ne stanno andando. Mentre un tempo il Venezuela, grazie alle sue risorse, era terra di migrazioni (ha accolto e arricchito anche tanti italiani) ora è terra di emigrazione.

Dove si sta emigrando?
La gente scappa dove può: principalmente in Colombia, Perù, Ecuador, Cile ed Argentina, dove ci sono radici comuni, anche per quanto riguarda la lingua. Partono a piedi, alcuni percorrendo sentieri di montagna, vie clandestine, altri si mettono in coda alle frontiere. In ogni caso per tutti è un salto nel buio; vanno all’avventura, nessuno sa cosa troverà. Chi può raggiunge anche il Brasile, la Spagna; alcuni gli Stati Uniti o cerca di rientrare in Italia, ma si tratta di viaggi più complicati, che affrontano solo le classi medie.

Chi resta in Venezuela?
Restano gli anziani, che non possono andarsene. Ma anche per loro la vita è tremendamente difficile. Si pensi che per un farmaco indispensabile per gli anziani, come quello per l’ipertensione, si spende quasi l’intera pensione.

E poi c’è il problema dei black-out elettrici.
Sì, un enorme problema: siamo stati due giorni e mezzo senza luce. Ora i black-out continuano: si tratta di interruzioni improvvise, non puoi programmare niente. In parrocchia ci siamo dotati di un generatore, ma la gente non ha la possibilità di fare altrettanto.

Cosa fate come Chiesa per alleviare questa situazione?
Abbiamo organizzato un’iniziativa chiamata “Pentole solidali”. Ogni parrocchia una volta la settimana organizza la distribuzione di minestra e focaccia. I parrocchiani incaricati di questo servizio fanno il giro dei negozi per raccogliere verdura e riso, ossa da far bollire nella minestra: si cuoce tutto in un grande pentolone. Una goccia nel mare, ne siamo consapevoli.

Cosa chiede la popolazione a voi sacerdoti?
La gente ci chiede conforto. In America latina c’è una cosa molto bella, che forse non trova eguale riscontro in Occidente: la celebrazione dell’Eucarestia viene vissuta come esperienza di comunione, di conforto. La gente mi dice: “Padre, continuiamo ancora, non guardi l’orologio”. Le nostre messe durano anche un’ora e mezza; si ascolta la Parola, si canta, si balla… e si va a casa con un filo di speranza in più. Allo stesso modo continuano ad essere molto frequentati gli incontri sulla Scrittura: in questo periodo buio è di aiuto confrontarsi con i periodi altrettanti bui vissuti dal Popolo di Dio, vedere la luce in fondo al tunnel, anche se dopo tanti anni in mezzo al tunnel diventa difficile vedere la luce. Io parlo loro dell’«utopia della speranza».

Ci sono altre iniziative, sul piano sociale, in parrocchia?
Sì, da anni portiamo avanti i gruppi per alcolisti anonimi e per tanti altri tipi di problemi (depressione, difficoltà famigliari, ecc…): a coordinarli sono alcune persone che ce l’hanno fatta e ora si mettono a disposizione di chi sta vivendo la loro stessa situazione. Anche questo è un segno di speranza. Come la solidarietà che questo lungo periodo di difficoltà ha fatto emergere: chi ha qualcosa in più lo sta mettendo a disposizione di chi non ha più niente, nel vero e autentico spirito cristiano. Non è un fatto generalizzato, ma è comunque un fenomeno abbastanza diffuso, che ci consente di andare avanti.