“Leone e coniglio? Evitiamo queste dicotomie”

Dopo il caso di Gragnano (e le reazioni social), parliamo di bullismo con lo psicoterapeuta Vittorio Gonella: "Una società individualista, ma fragile"

“La Fedeltà” si è occupata spesso di bullismo e,  più in generale, di disagio giovanile. La tragedia di Gragnano ci spinge a tornare sul tema. Lo facciamo con Vittorio Gonella: psicologo e psicoterapeuta, membro della Società italiana di psicoanalisi e psicoterapia Sàndor Ferenczi, Gonella svolge l’attività privata di psicoterapeuta a Fossano.

Un 13enne di Gragnano in provincia di Napoli che si suicida, probabilmente vittima di cyberbullismo; un ufficiale dei Carabinieri che commenta pubblicamente il fatto scrivendo che “se allevi conigli, non puoi pretendere leoni” e che, per queste parole, è oggetto da parte dell’Arma di un “procedimento amministrativo per le valutazioni disciplinari”. Lei, dottor Gonella, ha parlato di tutto ciò segnalando la necessità di “comprendere i vissuti del debole, della vittima, di chi soffre”. Ci spieghi meglio.
La mia riflessione partiva, innanzitutto, dall’impressione che questo commento, al di là del ruolo e delle competenze di questa persona, fosse un’immagine frutto di come i bulli, e l’ambiente in cui crescono, immagina il mondo: un luogo regredito a caratteristiche primitive, «animali», in cui la vita si basa su una sorta di «legge naturale della sopravvivenza»; un mondo in cui il forte sopravvive e per farlo deve «mangiarsi» il debole, nutrirsi di lui approfittando della sua impossibilità a difendersi. Fortunatamente, l’uomo e la società si sono, nel corso dei secoli, evoluti, raggiungendo livelli di convivenza che, se non perfetti, hanno permesso a ognuno di sopravvivere e, seppur con molte differenze tra i vari luoghi del mondo, trovare un proprio spazio di vita.
Il secondo spunto riguarda il chiedersi, in qualità di psicoanalista che cerca di dare un senso e una lettura ai fenomeni sociali, come mai ci sia un ritorno a pensieri così regrediti: penso a questo pensiero del Carabiniere ma anche a quei commenti che banalizzano le fragilità degli adolescenti come mere modalità devianti, o fanno di tutto per non riconoscere la fatica e gli effetti drammatici di questi ultimi anni di epidemia, lockdown, isolamento e Dad sulle giovani generazioni. Io penso che tutto questo sia una tendenza che caratterizza la società attuale, sempre più individualista e narcisista; non penso semplicemente a un narcisismo estetico, che è solo un lato di un prisma nel cui nucleo c’è il desiderio di primeggiare, essere apprezzati e ammirati, con la conseguente tendenza a voler nascondere tutto ciò che viene percepito, di se stessi e degli altri, come «debole», «fragile», non in linea con le aspettative del mondo circostante.
Tutto questo genera una rincorsa continua alla banalizzazione e alla semplificazione dei fenomeni (un tentativo, cioè, di rendere un problema meno complesso e di semplice interpretazione), ma anche alla ricerca immediata di soluzioni e consigli pratici e validi per tutti, tentando così di non soffermarsi sulle esperienze delle singole persone, perché bisogna superare le difficoltà in fretta e subito: una modalità che rischia di portare a soluzioni solo apparenti, proprio perché tentano di escludere una parte significativa dell’esperienza.
Ecco che allora, in questo clima così pressante e richiedente, anche chi, come i professionisti della Salute mentale, dovrebbero mantenere una posizione di pensiero rivolta alla comprensione e alla lettura dei cambiamenti della società, rischiano di rinforzare questa modalità di pensiero che cerca soluzioni: se penso al bullismo, o all’utilizzo di cellulare e social network, ho notato in questi anni un moltiplicarsi di iniziative in cui offrire soluzioni e gestione del problema, manuali del buon genitore efficace, senza una preventiva riflessione sul significato di certi comportamenti da parti di figlie e figli. Come se la società non avesse voglia e tempo di fermarsi e farsi domande come: «Perché mio figlio passa così tanto tempo sui social? Che significato ha quello che sta succedendo?».

Ci siamo chiesti che cosa intendeva concretamente l’ufficiale dei Carabinieri. Il presunto coniglio deve diventare leone ad esempio apprendendo le arti marziali e affrontando i suoi bulli come avviene in “The karate kid”? Ma del bullismo sono vittima anche la ragazze: sul nostro giornale, di recente, abbiamo scritto di un’adolescente bullizzata per una condizione di sovrappeso peraltro inesistente. E soprattutto - le chiediamo - chi alleva un figlio deve decidere fra due sole opzioni, cioè trasformarlo in un coniglio-vittima o in un leone-bullo? Se poi il proprio figlio è un adolescente introverso, educato e amante dello studio, occorre fargli forza perché muti il suo temperamento e sopravviva in mezzo al branco?
A mio parere, per quanto lo ricordi, «The karate kid» non è tanto un film sul bullismo, ma un film sul comportamento aggressivo tra adolescenti e penso che questa distinzione sia sempre importante e da fare in ogni singolo episodio: il protagonista di Karate kid conosce la ex fidanzata del «cattivo» e la difende durante una festa, creando così una rivalità, in cui l’avversario è più forte, ma che lui stesso ha contribuito a creare; inoltre, nel corso del film, il protagonista tenta di vendicarsi e attaccare il gruppo avversario, aspetto impensabile in una relazione bullo-vittima, dove normalmente quest’ultima è inerme e passiva. Dico questo perché la specificità del bullismo è la relazione particolare che si instaura tra vittima e carnefice: ciò che in primo luogo li unisce è una comune sfiducia nella possibilità che gli adulti capiscano i loro problemi.
Fatta questa precisazione e per rispondere alla sua domanda, io credo che sia fondamentale che chi cresce un figlio eviti assolutamente di utilizzare questo tipo di immagini e metafore sulla realtà di vita del figlio: queste, infatti, come accennavo nella domanda precedente, sono proprio frutto della cultura del «bullo» e del suo bisogno di vedere la realtà come una battaglia animalesca per la sopravvivenza. È necessario che la comunità delle persone respinga queste letture del mondo, e mantenga sempre uno sguardo attento al rispetto e alla convivenza, senza cadere in dicotomie pericolose come quella tra debole e forte, giusto e sbagliato, leone e coniglio, violenza e passività.
Questa è l’idea di mondo che ha il bullo, e diventare più leone di lui, sacrificando il proprio Sé autentico, significa dare conferma alla sua visione, anche se uno riuscisse a sconfiggerlo.

Immaginiamo il caso di un genitore che apprenda che suo figlio è vittima di bullismo. Alla luce della sua esperienza, ci dia un’indicazione pratica: che cosa consiglia di fare a quella mamma o a quel papà nell’immediato?
Difficile dare una risposta, proprio per ciò che dicevo: ogni singola situazione va osservata con le lenti dei soggetti in causa. Comprendo che un genitore, di fronte a questa scoperta, possa sentirsi ferito quanto se non più del figlio e possa provare rabbia e desiderare di risolvere tutto subito; ma è necessario prima di tutto fermarsi ad ascoltare, provando a comprendere non solo cosa è successo ma anche come sta questo figlio bullizzato, che cosa prova, come mai non ha raccontato prima quel che capitava. E nel fare questo è fondamentale non farlo sentire in colpa (ad esempio perché non ha parlato e chiesto aiuto) e non esporlo a ulteriore vergogna, ad esempio andando subito dal bullo a farsi giustizia, perché questo potrebbe essere vissuto dal figlio come un’ulteriore conferma che il bullo ha ragione: lui è debole e non sa difendersi. In questi momenti sarebbe importante rivolgersi a uno psicologo che aiuti la vittima, ma anche i suoi genitori, a raccontare i fatti e dare un nome alle emozioni provate, perché pensare che tutto passi nel momento in cui il bullo viene fermato è un’illusione: gli eventi traumatici lasciano segni profondi nella mente che devono essere curati per ridurne l’effetto sulla costruzione della personalità dell’adolescente.
Quello che sembra funzionare bene è la presenza di una rete di collaborazione tra le varie istituzioni e autorità presenti nel mondo giovanile: dalla scuola con i suoi rappresentanti adulti, ai gruppi di aggregazione, sportivi e non, fino ad arrivare alla possibilità di rivolgersi alle autorità di legge, come i Carabinieri. Questo per far sentire ai soggetti coinvolti che gli adulti, in realtà, ci sono e sanno come muoversi; dove mancano questo tipo di strutture sociali o, se ci sono, non collaborano, diventa molto difficile affrontare e ridurre i rischi del bullismo. Sappiamo, infatti, che la presenza di un adulto autorevole risolve immediatamente qualunque intenzione di bullismo ed è quindi la principale forma di prevenzione e intervento.

Spostiamo la nostra attenzione sul bullo. A fronte della retorica sul leone, l’esperienza ci insegna che il bullo sa diventare gazzella (e scappare) quando intuisce di aver trovato un “picchiatore” più forte. Che cosa rende un ragazzino un bullo?
So che mi ripeto, ma insisto: la violenza, la risposta «occhio per occhio, dente per dente» non è mai risolutiva in queste situazioni; il bullo potrebbe anche scappare in un primo momento, ma vedrebbe confermata la sua immagine del mondo, un luogo in cui vige la legge del taglione e la vita è una battaglia per la sopravvivenza.
Come mai un ragazzino diventa un bullo?
Provo a sintetizzare due aspetti che vengono spesso a galla nei colloqui con questi giovani: innanzitutto, una sfiducia nei confronti dei propri genitori, percepiti come soggetti che li deridono o manifestano reazioni aggressive, verbali e fisiche, di fronte alla loro vulnerabilità e fragilità; questi ragazzi temono che le loro emozioni creino irritabilità nel genitore più che una vera comprensione. Questa condizione può caratterizzare da molto tempo la relazione figlio-genitore ma si acuisce in adolescenza, periodo in cui i giovani si sentono più fragili, soprattutto a causa di un corpo in trasformazione che li spaventa ed è sconosciuto, e avrebbero bisogno della vicinanza empatica dei genitori: se è mancato un lavoro di comprensione e condivisione con gli adulti, questi ragazzi sono costretti a negare le parti deboli di sé, sentite come intollerabili e di ostacolo nella rincorsa verso un proprio status all’interno del gruppo dei pari.
Conseguenza di tutto questo è che la vittima viene attaccata perché rappresenta tutto quello che il bullo vuole cancellare e non vedere di sé, e lo farà in modo spesso spietato, senza essere in grado di riconoscere la sofferenza provocata: non avendo ricevuto empatia, non sarà in grado di dimostrarne nei confronti della vittima, non comprendendo la gravità delle azioni intraprese.

Nell’immaginario (e forse perfino nell’esperienza) di alcuni di noi, il bullo cessa di esserlo dopo due schiaffi: il primo lo riceve dalla maestra, il secondo dalla mamma. Oggi, per fortuna, di punizioni corporali non si parla più, né a scuola né generalmente a casa. Ma abbiamo la sensazione che sia emersa la tendenza opposta - non meno pericolosa - che consiste nel difendere i figli ad ogni costo, anche quando le loro responsabilità sono evidenti e serie. Che cosa ne pensa?
Penso che la sua domanda, già nella formulazione, evidenzia una caratteristica della nostra società: lei parla di «maestra» e «madre» come se immaginasse un mondo senza padri, intesi non solo come padri biologici ma come tutte quelle figure autorevoli che dovrebbero essere presenti nella società. E ha ragione: i padri hanno negli ultimi decenni abdicato il loro ruolo normativo diventando una sorta di seconda figura materna; si è, di conseguenza, anche indebolita quella funzione mentale che Freud definiva Super-io, intesa come capacità di strutturare dentro ognuno di noi un codice morale, etico e di rispetto delle norme che viene, appunto, trasmesso principalmente dalla figura paterna. Questo cambiamento genera di conseguenza un effetto nella realtà esterna: tutti i rappresentanti del Super-io nella società, dalla maestra al preside, dall’allenatore al carabiniere, hanno perso parte della loro autorevolezza normativa.
Questo processo, iniziato per motivi socio-storico-culturali negli anni Sessanta, si interseca con un’altra caratteristica del mondo attuale, citata in precedenza: viviamo in una società narcisista, preoccupata di entrare in contatto con qualunque esperienza che possa farci sentire incompetenti e deboli, che deve essere negata e contrastata a ogni costo, ne va della nostra autostima e dell’amore degli altri; ecco che allora si attiva un meccanismo di difesa inconscio che si chiama proiezione, che potrei rappresentare con queste parole: «Io sono un bravo genitore che ha cresciuto bene il proprio figlio, è la realtà esterna che non capisce e ha causato il problema; mio figlio è buono e ha ragione, sono gli altri che hanno torto». L’effetto di tutto questo è la perdita di obiettività, anche di fronte a fatti gravi ed evidenti, sentiti come intollerabili e pericolosi perché farebbero crollare un’autostima fragile e costruita esclusivamente sull’essere migliori, forti e capaci.
Per riassumere: ci ritroviamo in una società individualista ma molto fragile, con poca propensione all’ascolto e tanto bisogno di dimenticare in fretta i momenti di sofferenza e fatica, illudendoci che non pensandoci scompariranno. Tutti aspetti che transitano tra le generazioni.