Dalla Sicilia a Fossano, un anno di full immersion nella Papa Giovanni XXIII

Protagonista Rosario Pittera, seminarista della diocesi di Acireale che ha trascorso 12 mesi nella casa-famiglia della famiglia Bergia

Pittera Rosario nella casa-famiglia Bergia a Fossano

“L’esperienza nella casa-famiglia della Papa Giovanni XXIII con la famiglia Bergia mi ha aperto un mondo. Ora torno in Sicilia, consapevole di non essere più quello di prima. Rientro a casa con un modo di pensare nuovo, con alle spalle un’esperienza che mi ha segnato profondamente”. Sono parole di Rosario Pittera raccolte a caldo nella casa-famiglia di via Orfanotrofio a Fossano, pochi giorni prima del suo rientro ad Acireale (provincia di Catania) dove verrà ordinato sacerdote il 26 ottobre.

Rosario, seminarista di 25 anni, è arrivato a Fossano il 14 ottobre 2021. “Non ho scelto io di vivere questa esperienza nella Papa Giovanni XXIII (PG23) - si affretta a precisare fin dalle prime battute della chiacchierata -. Lo scorso anno il nostro vescovo, riprendendo quanto Papa Francesco richiede per la formazione dei sacerdoti nel 6° anno di teologia (dedicato alla pastorale), ha pensato di farci vivere un’esperienza di umanità piena dopo 5 anni di seminario immersi nello studio, un’esperienza che rompesse un po’ gli schemi. «Vi invio lontano dalla nostra terra, dalla nostra mentalità, dalle nostre tradizioni meridionali. Vi mando a Nord…». Con un mio compagno di studi, anche lui coinvolto nell’esperienza, si scherzava: «A Nord? Ci manderà a Messina, al massimo a Napoli… No, proprio nel profondo Nord! Io ho vissuto un anno a Fossano e il mio compagno di studi a Montodine, diocesi di Crema, sempre nella PG23 (in una “Capanna di Betlemme”, ramo della comunità che si occupa di barboni e senzatetto)”.

Rosario ha alle spalle altre esperienze nella Papa Giovanni XXIII. “Si può dire che la PG23 mi ‘perseguita’ fin dal primo anno di Seminario - prosegue - quando il rettore mi mandò in un quartiere malfamato di Scicli (Ragusa) dove la comunità stava aprendo un punto di accoglienza. Ricordo che partii piangendo per la paura di quanto mi attendeva e tornai... piangendo perché l’esperienza mi aveva coinvolto profondamente”.

È un po’ quello che è accaduto qui. Rosario non è arrivato a Fossano festeggiando, ci confida: si è trattato di un passaggio “traumatico” da una vita quasi monastica e molto inquadrata, quella del Seminario, con orari scanditi, pasti già preparati… a una vita di famiglia che in Seminario aveva quasi dimenticato e che in casa-famiglia ha ritrovato all’ennesima potenza. “Anche da qui me ne vado piangendo, perché questa esperienza mi ha segnato profondamente - ci dice commosso -. Ho vissuto in questa casa-famiglia 24 ore su 24: in questi 12 mesi ho mangiato con loro, dormito con loro, vissuto con loro… Ho fatto il cuoco, il taxista… Ho vissuto il caos di una casa-famiglia nei giorni di festa. Ho avuto la possibilità di instaurare relazioni molto strette e intense. Penso a Matteo, che ho conosciuto appena atterrato a Caselle e che poi ho accompagnato da vicino come suo insegnante di sostegno al Cnos-Fap di Savigliano. Poi Grafian (morto a 23 anni all’inizio di luglio) che non aveva la possibilità di parlare ma sapeva farsi capire soltanto ridendo. Con lui ho imparato che si può parlare… senza le parole. Per poter comunicare non ci voglio troppe parole, è sufficiente l’amore”.

“Nella casa-famiglia dei Bergia ho imparato a conoscere anche don Oreste Benzi (il fondatore della Papa Giovanni XXIII morto nel 2007, ndr) - prosegue Rosario -. Mi viene in mente una sua intervista dal titolo ‘L’errore di Nunzio’ in cui un padre di famiglia si chiede come sia possibile accogliere un ragazzo che è sordo, muto e cieco. E don Oreste: «Non perdere troppo tempo a chiederti come, piuttosto pensa alla cosa bella che stai per fare. Stai per imparare a guardare ciò che vedono i ciechi, a sentire ciò che sentono i sordi e a parlare la lingua dei muti»”.

Inoltre, anche se viveva a tempo pieno in casa-famiglia, è entrato in contatto con numerose realtà ecclesiali cittadine: “In questi 12 mesi ha stretto relazioni con la parrocchia del Salice, con le suore benedettine, con la comunità dei frati cappuccini, con i seminaristi che mi hanno invitato tante volte a momenti condivisi di preghiera e fraternità”.

A conti fatti, quella di Rosario è stata un’esperienza pastorale a 360 gradi anche se non ha questa etichetta e non è legata a una parrocchia. “Il tutto sostenuto dalla preghiera e dalla partecipazione quotidiana all’eucaristia, perché non si può dare ciò che non si ha” le sue parole conclusive.