Dalmazia Viale: “Dipingere icone è una vocazione”

Incontro con l’iconografa di Borgo San Dalmazzo, che spiega i segreti di quest’arte sacra

Dalmazia Viale, pittrice, iconografa di Borgo San Dalmazzo

Iniziò ad interessarsi alla figura del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata, sentendone parlare da padre Francesco Peyron quando era alla Certosa di Pesio. Ne realizzò poi l'icona, dai tratti giovanili, che si trova nell'Istituto della Consolata di Fossano (l’ha presentata ai fedeli durante la celebrazione di metà febbraio dedicata al beato).

Dalmazia Viale, pittrice autodidatta, iconografa di Borgo San Dalmazzo (da pochi anni residente a Cuneo), ha frequentato l'Accademia di Belle arti quando già aveva passato i 40 anni, pur essendo da sempre interessata alle mostre di icone, alle immagini sacre, alle figure ieratiche un po' severe. In Accademia, facendo un esame di iconografia in estetica, col professore che portò in classe un libro di icone, si immerse gradatamente in questo mondo “e in quello divino”. Tra le altre materie complementari studiò poi il restauro d'arte sacra, finché lei stessa “provò a fare un'icona con il maestro, amico del suo insegnante, che veniva dall'est”.

Fu un'occasione di insegnamento offerta nel corso di laurea, mentre nel frattempo si era anche iscritta alla scuola di iconografia di Seriate, che “dà una preparazione specifica” in questo settore, con possibilità di aggiornarsi sulla tecnica, e con momenti di spiritualità legati a quest'arte. Approfondendo, per una ventina d’anni, “tutto il valore teologico che c'è dietro un'icona. Dovevo essere pronta a fare l'iconografa”, ci dice accogliendoci nella sua casa, in cui si trova il suo laboratorio - luogo di preghiera.

Immagine di Cristo che si fa presenza

Già, perché infine, l'icona, cos'è? Le chiediamo. “Dal termine eikon, è un'immagine di Cristo che si fa presenza; ogni icona è infatti centrocristica”, ci spiega, dove tutti i soggetti, “la Madre di Dio, così come gli altri santi, rispecchiano comunque Cristo. È importante saperlo, come è importante capire che l'icona ha un suo valore teologico, da cui il valore artistico non può mai essere separato. È perciò una forma di arte che supera l'opera d'arte. Quest'ultima, infatti, di solito non va toccata. Al contrario, invece, l'icona viene toccata e baciata per essere venerata, perché è una presenza. Me lo dicono tutti, infatti, che, quando entrano o escono di casa, non possono fare a meno di porgerle un saluto”. E senza le icone, per esempio, non si possono neanche svolgere le divine liturgie ortodosse.

I canoni dell’iconografia

Queste rappresentazioni hanno canoni pittorici diversi dall'arte sacra occidentale, affidata agli artisti, “che dipingono con le loro personali interpretazioni o con quelle dei loro committenti”. Gli artisti orientali hanno continuato con l'iconografia, rispettando canoni estetici ben precisi, prestabiliti, dettati dai padri iconografi. Canoni senza i quali “l'iconografia non potrebbe più continuare ad essere una presenza, ma, come un vetro sporco, infangato, non lascerebbe più passare la luce”. Perciò, ad esempio, “la Creazione divina, all'interno dell'icona, ci dev'essere”, così come il materiale (creazione minerale, naturale, animale, essendo usata la tempera all'uovo o il gesso con la colla di coniglio etc..). E poi l'icona “dev'essere scavata; l'interno del suo incavo sarà chiamata culla, dove si rappresenta il mondo divino, che noi riceviamo nella contemplazione. Mentre la parte esterna, detta cornice, rappresenta il mondo nel quale esistiamo e in cui abbiamo iniziato il cammino della vita eterna”. La parte dorata, che non si può penetrare, viene invece incontro a chi la contempla “come Grazia divina che trasforma”.

Dalmazia Viale, pittrice, iconografa di Borgo San Dalmazzo, al lavoro nel suo laboratorio di Cuneo

Una forma di evangelizzazione

I canoni estetici di quest'arte sono stati quindi assegnati “per l'autosuperamento di noi stessi, che dobbiamo essere, prima di tutto, icone d'umiltà. E infatti l'iconografo non deve mai firmarla, ma dev'essere un canale libero, in cui lo Spirito Santo passa per le sue mani”, ci dice ancora Dalmazia Viale, che lamenta come non tutte le icone che si vedono in giro siano da considerarsi tali, fosse anche solo per l'uso di colori non appropriati. O dei gesti riportati. Ad esempio, “ha girato molto in questi anni l'icona della Sacra Famiglia”, continua, “con San Giuseppe che abbraccia la Madre di Dio”. Ma “l'abbraccio ha un significato di concepimento carnale”. Mentre solo “attraverso lo Spirito Santo avviene l'Incarnazione”, e quindi tutto ha un suo significato. “C'è poi un'icona di Sant'Anna e San Gioacchino in un abbraccio, e questo rappresenta invece il concepimento della Madre di Dio”.

Nonostante i tempi cambino, con linguaggi ed interpretazioni diverse, nel rapporto di Maria con Giuseppe (figura di sposo e padre, ultimamente alquanto rivalutata), “l'iconografo non si deve discostare dai linguaggi già dati, perché se l'abbraccio significa concepimento carnale”, non può avere un'altra spiegazione. Ci sono poi stati anche altri cambiamenti di interpretazione e raffigurazione in epoca moderna, “come per esempio San Giuseppe con il bambino in braccio, ma è sempre la Chiesa che deve dare l'autorizzazione per poterlo fare”.

Forma d’arte che lascia trasparire il divino

Inoltre, ogni icona deve, in quanto presenza divina, “avere il nome del personaggio, dell'avvenimento evangelico rappresentato, come Dio ha dato il nome a noi e alla Creazione”. Esiste infatti l'espressione “scrivere le icone”, perché, se “il vangelo annuncia la Parola con lo scritto, così l'icona annuncia e rende presente il vangelo, l'avvenimento, il personaggio, con i colori”.

Le icone non si possono inventare secondo i gusti dell'artista, come è già stato detto, però “si possono copiare”, tenendo sempre presente le condizioni per realizzarla; l’armonia del colore, della figura... O, nel caso di icone di nuova realizzazione (come è stato per lei quella del beato Giuseppe Allamano), basta “seguire i canoni prefissati. Il libro in mano, quindi, gliel'ho messo, perché lui ha basato tutta la sua vita e quella dei missionari sul vangelo, sulla Parola di Dio. L'iconografo deve anche possedere, dentro di sé, l'immagine che va a scrivere. Io mi sono letta i libri dell'Allamano (come quelli di altri santi), per possederlo dentro di me, nonostante l'opera debba sempre essere realizzata in preghiera, lasciandosi guidare la mano e il cuore dallo Spirito Santo”.

Beato Allamano Icona
L'icona del beato Giuseppe Allamano, realizzata per i Missionari della Consolata di Fossano

A servizio della Chiesa e della Parola di Dio

L'iconografo deve perciò, necessariamente, essere una persona ispirata, secondo un cammino spirituale costantemente alimentato dalla conoscenza e dalla contemplazione dei misteri di Dio, e dalla sua Parola. “È una vocazione di cui essere coscienti, lavorando per essere a servizio della Chiesa”, parlando e coinvolgendo, anche attraverso mostre, i giovani, come più volte ha fatto a Borgo San Dalmazzo.

Questa missione, sempre motivata, c'è pure chi la sceglie come lavoro da viverci, e questo significa che c'è una grande richiesta di icone. “Ne ho fatte a centinaia”, ci dice Dalmazia “e continuo a farne; per le chiese, ma soprattutto per le case, perché l'icona è una presenza che va a vivere dentro le mura domestiche, accompagnando la vita delle persone. Poi ancora per gli sposi, per un battesimo, per una prima comunione o per un semplice regalo”. Non dev'essere solo una moda, “lo stesso committente dovrebbe accompagnare con la preghiera il lavoro che ha richiesto, perché lo Spirito passi veramente” in ciò che viene realizzato. E a sua volta ogni iconografo, prima di iniziare, prega con queste parole, che ben riassumono le finalità del suo agire: “O Divino Maestro... illumina lo sguardo... reggi e governa la mano (del tuo servitore), affinché degnamente e con perfezione possa rappresentare la Tua immagine, per la gloria, la gioia e la bellezza della Tua santa Chiesa”.

Sabrina Pelazza