Don Vincenzo Grossi

Testimoni del Risorto 04.11.2015

A fare problema, nel caso di don Vincenzo Grossi, è sempre stata l’assoluta normalità della vita e l’assenza dei segni distintivi della santità “classica”. Infatti, un prete al “processo” si augura, senza mezzi termini, che la di lui beatificazione venga ritardata, perché “il concetto che solitamente il nostro popolo ha della santità verrebbe un pochino sminuito”. E questo, ci tiene a precisare, “non perché si pensi che il Servo di Dio non sia ancora in Paradiso, ma perché nel concetto popolare si pensa che i santi che sono sugli altari abbiano fatto qualche cosa di più esplicitamente straordinario”. Non così, per fortuna, ha pensato la Chiesa, che non solo ha beatificato, ma il 18 ottobre 2015 ha pure canonizzato il prete “straordinariamente ordinario”, che nasce a Pizzighettone (Cremona) il 9 marzo 1845, penultimo dei dieci figli di una famiglia proprietaria di un mulino e, per questo, rispetto ad altre agiata, ma comunque non al punto da permettersi di mantenere due figli in seminario. Così Vincenzo deve aspettare che il maggiore Giuseppe diventi prete e solo a 19 anni può iniziare il suo percorso, anche se non ha perso tempo e, tra un sacco di farina e l’altro, si è preparato insieme al suo parroco per l’esame di ginnasio, il che gli permette il 22 maggio 1969, cioè a 24 anni, di arrivare in tempo all’appuntamento dell’ordinazione. Dopo i primi incarichi nelle parrocchiette limitrofe alla sua, nel 1873 è nominato parroco a Regona, frazione del suo paese, per cercare di rimediare ai danni compiuti (secondo la testuale definizione del vescovo) da un “disgraziato antecessore” che ha desertificato la parrocchia. Ci riesce presto e bene, trasformandola in un “conventino”, come dicono i confratelli un po’ invidiosi, dimenticando la preghiera e la penitenza che deve investire per ottenere un simile risultato. Perché don Vincenzo per tante ore al giorno è prigioniero del confessionale nel tentativo di “costruire” le coscienze, mentre almeno altrettante le passa in prolungato colloquio davanti al tabernacolo. Dai giovani si lascia tranquillamente invadere la canonica e anche svuotare la dispensa, con grande disappunto della perpetua, che non riesce a capire che queste feste parrocchiali sono un modo per tenerli lontano da compagnie e divertimenti pericolosi. A preoccuparlo, però, è la gioventù femminile, per arrivare alla quale pensa di farsi aiutare dalle migliori ragazze che si sono affidate alla sua direzione spirituale. Prendono così forma le Figlie dell’Oratorio, che per letizia e “santa giovialità” devono ispirarsi a San Filippo Neri, per carisma devono essere a servizio della gioventù e lavorare in stretta collaborazione con i parroci, per abito devono avere un vestito semplice e senza velo per poter meglio avvicinare le ragazze. Chiede loro di abitare in case in mezzo alla gente e di lavorare per potersi mantenere economicamente e non gravare sulle casse della parrocchia. Il sogno di questa nuova congregazione prosegue anche quando, nel 1883, il vescovo gli chiede il grosso sacrificio di lasciare Regona per andare a Vicobellignano, una parrocchia difficile con una forte presenza metodista. Qui deve adottare un nuovo stile pastorale, più “in uscita”, a cominciare da questi fratelli “separati”, dei quali dice: “I metodisti devono comprendere che amo anche loro”. Per questo cerca di essere per tutti “il bastone che sostiene e non la verga che ferisce”. E si fa capire così bene da convincere il loro pastore a venire ad ascoltare le sue prediche, mentre le famiglie protestanti cominciano a mandare i loro figli alla scuola parrocchiale. “Lavorate, lavorate, perché in Paradiso si deve andare stanchi… là si vive di rendita”, raccomanda ai parrocchiani e alle sue Figlie, dando per primo l’esempio di un’attività senza sosta, di famiglia in famiglia, al confessionale, all’altare. Il peso degli anni, un po’ di delusione nella risposta di alcuni parrocchiani, forse un momento di crisi che anche i santi attraversano lo portano a ipotizzare di lasciare la parrocchia per dedicarsi esclusivamente alle sue Figlie, ma il vescovo lo convince a rimandare questo passo perché la parrocchia ha ancora bisogno di lui. Muore il 6 novembre 1917 di peritonite fulminante e subito si accorgono che è morto un santo, fattosi tale, nella quotidianità più anonima, “semplicemente” facendo il parroco e, insieme, gettando l’occhio al di là del proprio orticello per venire in aiuto alle necessità della Chiesa. Come ancora stanno facendo le sue Figlie, oggi presenti anche in Argentina ed Ecuador.