San Filippo Neri

 Testimoni del Risorto 27.05.2015

Di patroni del buonumore questa nostra epoca tormentata e musona avrebbe bisogno di più d’uno. O forse le basterebbe ricorrere a san Filippo Neri, festeggiato in questa settimana, che, oltre ad essere un autentico spiritosone, è la prova provata che il buonumore non è mai direttamente proporzionale all’assenza di grattacapi. Nasce a Firenze nel 1515 ed ha appena il tempo di conoscere sua madre, che muore cinque anni dopo. Per sua fortuna la matrigna è gioviale ed affabile e, specialmente con lui, stabilisce un affettuosissimo rapporto: forse perché i loro caratteri si assomigliano di più. Il padre è un notaio con pochissimi clienti, perché lavora solo quando è costretto dalla fame, preferendo per il resto dedicarsi all’alchimia, che da hobby è diventata una fissazione. Ovviamente, entrandovi pochi soldi, in casa Neri si mangia poco e male. Così un bel giorno decide di mandare il figlio diciottenne, che tutti chiamano “Pippo buono” per via del suo bel e buon carattere, da un parente che abita a Cassino, che ha fatto fortuna con il commercio e che non ha figli. Lo scopo, neanche troppo nascosto, è che Filippo ne rilevi l’attività, la clientela e anche la consistente fortuna. Il ragazzo, pur trovando affetto nella nuova casa, non si sente portato per il commercio e poco dopo decide di far fagotto. Non torna però a casa, visto che nel 1534 la sua presenza è già attestata a Roma, che in quel periodo, oltre che centro della cristianità, sembra essere anche la capitale della corruzione e del degrado morale. Filippo, senza scandalizzarsi troppo, comincia a darsi da fare, soprattutto in mezzo ai giovani. Comincia a radunarli, istruirli, seguirli, conquistandoli con la giovialità, l’allegria e il sorriso. Particolare fascino sembra esercitare sui “ragazzi di strada”, conquistandoli anche con la giocoleria e soprattutto contagiandoli con il suo inalterabile umorismo. Incredibile a dirsi, quel giovane così scoppiettante, focoso e fantasista ha uno spirito contemplativo che si esprime in una prolungata preghiera, soprattutto notturna, nelle chiese deserte, sui sagrati silenziosi, nel buio delle catacombe. È un laico, dunque: impegnato e trascinatore, dotato di un carisma eccezionale, animato da una spiritualità intensa, ma sempre e comunque un laico. Che non pensa assolutamente a farsi prete e, sempre da laico, comincia a radunare i giovani, offrendo loro l’opportunità di esprimere il loro amore al prossimo nell’assistenza a pellegrini e malati, sempre all’insegna del sorriso e del buonumore. Si sente profondamente allergico ad ogni ordine religioso e anche al gruppo che spontaneamente si raduna intorno a lui non vuole imporre voti né obblighi di comunità. Ha un amore particolare per la liturgia, che vuole ben curata e preparata, ricca di canto e musica, ed in essa educa i giovani: è per questo che alla sua informale comunità cominciano a dare il nome di Oratorio. Ha la fortuna di incontrare sulla sua strada un sacerdote santo e illuminato, padre Persiano Rosa, che diventa il suo confessore abituale e, con molta discrezione, lo aiuta a maturare la vocazione al sacerdozio. Viene ordinato a 36 anni e nei 44 che gli restano di fronte si spende principalmente nella confessione e nella direzione spirituale. Dicono che abbia il dono di leggere nei cuori: la gente accorre e lui la rinnova interiormente. Per potersi confessare da lui si mettono in coda fin dalle prime luci dell’alba e attorno a lui, piano piano, prende corpo la Congregazione dell’Oratorio, di cui farà parte anche il nostro beato Giovenale Ancina. Sempre anticonformista e fantasioso (il suo modello ed ispiratore è sempre il Savonarola), scandalizza i benpensanti e incrocia un sacco di oppositori per i suoi metodi, i suoi discorsi e le sue azioni. È infatti convinto che la via della perfezione non è riservata solo al clero, ma su essa si possono incamminare laici e monache, ricchi e poveri. Nelle sue prediche insiste più sull’amor di Dio che sulle penitenze corporali allora tanto in voga; raccomanda umiltà, senso delle proporzioni, gentilezza e allegria. Al Papa restituisce prontamente in giornata gli abiti cardinalizi che gli ha mandato in dono, mandandogli a dire che per lui sono troppo stretti. Sempre e soltanto semplice prete, umile e spiritoso, dopo aver rallegrato con le sue trovate comiche, una città intera, papa e cardinali compresi, arriva per lui il momento di andare a rallegrare i santi in paradiso: si spegne all’alba del 26 maggio 1595, alla soglia dei suoi 80 anni. Ribattezzato “apostolo di Roma”, proprio come i santi Pietro e Paolo, viene canonizzato nel 1622.